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C'era sempre una sottile sfida verbale in quegli incontri, sui volti dei funzionari di partito e degli informatori c'era un'ottusità contrita che adesso è difficile descrivere. Bisognava saper resistere, difendere quelle nostre riunioni in chiesa e non fornire motivi perché lo Stato intervenisse con un divieto. Altri pastori più impazienti negli anni precedenti erano stati incarcerati o espulsi all'Ovest.
Ma quando, nel settembre di quel 1989, la situazione si era fatta drammatica e gli arresti arbitrari colpivano semplici passanti, donne, ragazzi, gente che si presentava in piazza per pura curiosità, allora anche la chiesa ha preso esplicitamente le difese dei manifestanti. Sull'inferriata di San Nicola avevamo affisso la lista dei nomi degli arrestati, e anche il nostro vescovo si è mosso presso le autorità per chiederne la liberazione. I numeri erano diventati imponenti, con duemila persone in chiesa ogni lunedì, e diverse migliaia fuori ad aspettare la fine della preghiera per la pace, con cartelli, striscioni, e candele.
Bisognava trovare un modo per evitare il massacro, questo è stato l'input che ha spinto il pastore Christoph Wonneberger, uno dei più attivi sin dagli anni Settanta con gli obiettori di coscienza, a elaborare un decalogo della nonviolenza: nella sua predica del 25 settembre, con quel suo discorso sul potere, sulla forza dello Stato e sulla forza della giustizia, ha fornito un decalogo di comportamento che tutti hanno assimilato. «No alla violenza», «Noi siamo il popolo»: questi sono stati gli slogan che in due settimane avrebbero costretto il regime alla trattativa. Dalla parola del Vangelo noi abbiamo imparato la legge del rispetto, dell'aiuto reciproco, del rifiuto della violenza, e questo è diventato il vademecum di ogni singolo manifestante, anche di chi nello Stato ateo di Berlino Est non era stato educato alla fede. Sulle strade di Lipsia, quel 9 ottobre 1989, eravamo in 70mila. Poco prima delle 18, alla conclusione della preghiera per la pace, la città sembrava un fiume in piena: nonostante gli avvertimenti lanciati dal giornale di partito («Soffocheremo la controrivoluzione con le armi»), nonostante i divieti e i posti di blocco delle vie di accesso alla città, nonostante girassero voci che agli ospedali fossero arrivate sacche di sangue e che gli operatori sanitari fossero stati mobilitati per l'emergenza, la gente si è ritrovata per strada. Una candela in mano, molti cartelli con il no alla violenza, e tanti canti e slogan: noi siamo il popolo, gridava la gente ai "Vopos", la cosiddetta "polizia del popolo". Questo ha spiazzato le migliaia di agenti e di soldati che erano pronti alla repressione. E l'ordine di sparare sulla folla non è arrivato.
Due giorni prima a Berlino erano stati picchiati e arrestati in duecento, a Dresda le retate avevano prelevato un migliaio di manifestanti. A Lipsia, invece, il 9 ottobre il regime ha fatto un passo indietro. Niente manganelli, niente arresti, ma neppure vandalismi da parte della gente. Solo una marea di cittadini che chiedevano riforme e libertà.
Il giorno dopo sono iniziate le trattative con i vertici, si è cominciato a parlare di un nuovo regolamento per la libertà di viaggio e di espatrio, si sono costituiti i primi partiti liberi dal 1949, finché il 18 ottobre il vecchio governo si è dimesso. Ecco perché, per me e per molti altri, il 9 ottobre 1989 è la data simbolo della rivoluzione tedesca che ha segnato la fine delle due Germanie, non il 9 novembre quando è caduto il Muro di Berlino e nemmeno il 3 ottobre 1990 quando si è sancita la riunificazione della Germania. Il 9 ottobre 1989 a Lipsia.